La Scrittura Espressiva

«Abbiamo solo ventuno lettere, ha detto il maestro. Con quelle dovremo fare tutto: ridere, piangere, consolare, amare, contraddirci. Dire quando siamo felici, non far capire quando non lo siamo piú, ingoiare una parola che potrebbe ferire, tenercene una tra le mani come una cosa fragilissima e preziosa (....) Tutti vorremmo provare a mettere la vita in ordine alfabetico. Ben sapendo che, purtroppo e per fortuna, in ordine alfabetico la vita non ci sta» (Andrea Bajani).

Scriviamo per lasciare una testimonianza della nostra esistenza, per riflettere su noi stessi, per affrontare un momento difficile della nostra vita, scriviamo per ricordare e per costruire nuovi ricordi (Demetrio, 2011). L'atto di costruire storie permette di dare significato agli eventi, cambiare il modo in cui le esperienze emotive sono organizzate nella nostra mente, riconoscere la propria vulnerabilità, integrare le esperienze di vita e connetterle al cambiamento, facilitando la costruzione di schemi narrativi del sé integrato. Gli eventi dolorosi che non vengono elaborati in una struttura narrativa definita alimentano pensieri e sentimenti negativi con conseguente distress emozionale e intensa sofferenza e vengono memorizzati e custoditi dal corpo (Pennebaker, Seagal, 1999). La scrittura agisce nella misura in cui si lasciano andare le emozioni e i pensieri più profondi: questo permetterebbe di ridurre lo stress generato dall’inibizione, processo che contribuirebbe contrariamente all’insorgenza di problemi di salute e disagio psicologico (Pennebaker, Evans, 2014). Ecco che quindi la scrittura espressiva s’inserisce nel campo clinico come tecnica di esposizione per la rielaborazione di un’esperienza traumatica, aiutando il paziente ad accrescere la consapevolezza e a costruire nuovi significati.

L'intervento di scrittura espressiva nasce dall'intuizione dello psicologo americano James Pennebaker a partire dalla ricerca sulla significativa correlazione tra natura dell’esperienza traumatica e salute fisica: le persone che non parlavano apertamente del trauma avevano più possibilità di ammalarsi (Pennebaker, Chung, 2007). Il suo metodo si inserisce nel quadro di riferimento più ampio della medicina narrativa, un modo nuovo di concepire il percorso terapeutico che permette la personalizzazione, la completezza e la co-costruzione del processo di cura, laddove paziente e medico rivestono entrambi il ruolo di protagonisti e sono al centro della decisione terapeutica.

In accordo con quella che Pennebaker chiama esperienza del letting go (dall'inglese rilascio emotivo), il vantaggio dell’espressione emozionale scritta risiede nella possibilità che la persona ha di parlare di sé e del proprio vissuto, nell’effetto emozionante, catartico e di auto-esplorazione dove entrano in gioco processi di natura meta-cognitiva ed emotiva che ne connotano la valenza terapeutica.

Il primo studio fu pubblicato nel 1986 e coinvolse un gruppo di 46 studenti universitari, i partecipanti alla ricerca valutarono l’esperienza della scrittura espressiva come un’opportunità profondamente significativa e processo di crescita nella propria vita (Pennebaker, Beall, 1986); un dato interessante fu l’effetto dell’intervento sul sistema immunitario e sulla riduzione delle visite mediche oltre che un miglioramento del benessere, decremento del distress e ricostruzione di ricordi traumatici mai rivelati. Ecco che la scrittura diventa uno strumento potente nell’elaborazione di un’esperienza traumatica, permettendo l'espressione profonda, libera e autentica si sé (Pennebaker, 1995). La sua efficacia è da ricondurre a due processi di base: sciogliere lo sforzo cognitivo generato dall’inibizione dei ricordi dolorosi e promuovere l’assimilazione cognitiva grazie all’ espressione verbale (Greenberg, 1995). L’essenza della scrittura autobiografica si ritrova nell’atteggiamento di sincerità verso se stessi, nel rivelare il mondo interiore (Demetrio, 2008). In questa prospettiva scrivere aiuta a: organizzare una narrazione coerente, pensare all’evento traumatico in modo nuovo e coinvolgente, prestare attenzione alle connessioni causali e alla consequenzialità delle situazioni e, infine, offre la possibilità di riconoscere le emozioni e attribuire loro un nome (Solano, 2007).

Nel corso dei suoi studi l’autore ha cercato di analizzare gli scritti al fine di identificare quale fosse il fattore predittivo della condizione di salute nella stesura dei testi: scoprì che il fattore discriminante che differenziava una scrittura benefica e terapeutica, non era tanto il contenuto della narrazione quanto piuttosto il modo in cui le persone si esprimevano. Le parole più semplici e apparentemente banali come pronomi, articoli, verbi ausiliari, congiunzioni, preposizioni o negazioni rivestivano un ruolo fondamentale nei saggi dei partecipanti (Pennebaker, 2011). Nello specifico gli indicatori da tenere in considerazione sono soprattutto i pronomi: la grande differenza sta nell’uso del pronome personale “io” (Pennebaker, 2011). La presenza di numerosi pronomi è fattore predittivo di potenziali benefici associati all’intervento, nonché marcatore di salute fisica e mentale.

Negli ultimi anni il campo d’indagine si è ampliato interessando un numero sempre maggiore di persone con caratteristiche differenti. I benefici dell’intervento sono stati ottenuti su un’ampia gamma di popolazioni cliniche e non: persone con età, culture e patologie eterogenee sia fisiche che psichiche (Pennebaker, 2004). Scrivere è molto facile, basta un po’ di tempo e un posto tranquillo. Anche qualcosa di così semplice, che l’uomo fa da millenni, può generare un cambiamento e agire positivamente sulla salute (Pennebaker, Smyth, 2016).